INTERVISTA
a cura di Chiara Merlo
in occasione della mostra Mes Femmes del 2008
È di fronte a un quadro che si vorrebbe parlarne con il suo autore, anche solo per scoprire, nelle rughe del viso, negli occhi, quelle emozioni nascoste che il colore ha per sé già da tempo sublimato.
La possibilità è sempre imprevista, casuale, e quando ci capita di incontrarlo, l’autore, proprio lì, davanti a un suo quadro (ugualmente che dentro), vorremmo chiedergli perché quell’opera ci piace (oppure no!). E questo vorremmo chiedere esattamente a chi può darcene più di altri un’esauriente spiegazione.
Si dice che ognuno vede nell’arte ciò che vuole, o che sente, ma forse la ricerca è ogni volta più sottile e inconsapevole: capire in qualche modo cosa ci racconta…e cosa racconta di noi (piuttosto che del suo creatore), così del tempo che abbiamo vissuto o che stiamo ancora vivendo. A volte ci spinge a cercare, anche solo con lo sguardo, l’interno di quei molteplici significati personali e sociali semplicemente intravisti, e a volte anche a forza, sopra la superficie dipinta, quasi descrivessero un’impenetrabile immagine di destino interiore, e per questo ogni volta facilmente sovrapponibile.
Proprio di fronte al suo autore invece, ogni opera rifiuta di diventare diversa da quello che è (e perciò oltre il tridimensionale e personale anacronistico), rivendica al contrario, anche solo per qualche istante, la sua più intima appartenenza, e attraverso le parole di chi sempre e più volte ha dovuto insistentemente interpretarla.
E così si dissolve quell’intenzione falsata che ci porta a ricercarne i diversi percorsi come fossero nostri individuali…mentre non possono essere sempre facilmente riconoscibili, anche quando più che sapiente è stato il movimento del pennello: alcuni sono pensiero e sensibilità che non guardano al passato ma al futuro, e perciò assolutamente incomprensibili se non in quell’unica possibile spiegazione che soltanto l’autore può conoscere o intuire (e neanche sempre o coscientemente).
Luciano Lanati è in particolare un artista fortemente schivo, riservato più di altri a lasciare trasparire di sé le emozioni del guardare e del commentare il suo stesso faticoso lavoro introspettivo, quasi a non voler parlare con facilità e superficialità di quelle sue opere, già il risultato di una oscura e complessa emotiva comunicabilità, e perciò non si lascia intrappolare nei possibili luoghi comuni di una fruibile interpretazione sintetica, né trattenere da singole individuali mistificazioni, quasi dovesse sfuggirne, anche solo fisicamente. Il desiderio di un colloquio con lui è perciò ogni volta fortemente compromesso, dalla inadeguatezza che può avere ogni maldestra interrogazione specie quando vorrebbe essere insolentemente suo malgrado di stile.
Le domande però, oltremodo necessarie, specie quando il progetto non è più di un quadro, ma di un’intera mostra e a tema: “Le mie donne”, cercano di essere a loro volta il più possibile esaustive, e perciò indagano a fondo o cercano, anche se con quella certa accortezza per non usurpare, il vissuto e la sperimentazione artistica, perché meglio possano spiegare l’intenzione e il sentimento di ogni donna/opera rappresentata.
Quando hai preso il pennello in mano per la prima volta e perché, cosa volevi esprimere?
Di Domenica mio nonno metteva il doppiopetto e il borsalino e ci portava, me e mio fratello, a prendere la granita, se era estate, i baci di Alassio, se era inverno.
Poi ci dava la paghetta avvolta in un bel po’ di raccomandazioni.
Era bravo mio nonno, ma quella volta, furioso, furente, arrabbiato ed infuriato si precipitò, in piena notte, da mio padre.
Mio padre mi svegliò pericolosamente calmo e disse solo:- alzati, con chi eri? ..…porta questi a Loreto.
Loreto era la casa di campagna di mio nonno, dove andava rarissimamente e dove io avevo passato la mia infanzia tra i cachi, posati a maturare su tutti gli armadi e persino sul lampadario fatto con una ruota di carretto, e le armi dei partigiani nascoste sotto stracci in uno sgabuzzino buio.
Forse per mio nonno più di una casa era un tempio da noi vilmente profanato:
i miei amici ed io l’avevamo interamente affrescata con festoni di gioia e di mestizia, danze esotiche, piante e baiadere persino sul soffitto… per la “ festicciola”.
Dovetti arrancare sul sentiero trascinando latte di pittura, spugne, secchi e pennelli.
Al mio arrivo trovai gli amici con relativi padri.
Quando arrivarono gli invitati ci trovarono in mutande, coperti di bianco dalla testa ai piedi, sudati e puzzolenti a lavare finestre e pavimenti:
avevo circa 18 anni e una gran vergogna!
Che mi ricordi, fu la prima volta che presi in mano un pennello.
Era nel 1955.
Per permettermi di studiare in pace per la maturità i miei mi chiusero nel collegio severissimo delle Scuole Pie a Savona, dove mi trovai assai bene e fondai il “club degli insonni goduriosi” destinato alle peggiori e più nascoste perversioni notturne: mangiare, bere e ascoltare jazz.
Tutto andò bene finché non fui eletto direttore del giornalino del collegio: ”Il Monturbano” distribuito anche in città.
A causa di qualche rubrica come: non è vero che….. però è vero che sono un gran bugiardo, e per divergenze ideologiche, fui pregato amichevolmente di andare a mangiare e dormire altrove.
Con la pensioncina condita di minacce datami dai miei trovai una cameretta a pranzo fisso e cioè: riso al latte e tometta di ricotta (tutti i giorni).
Trovai anche un amico che aveva un problema ai piedi e una Topolino e che guadagnava qualcosa facendo piccole scommesse con camionisti che non riuscivano a guidarla perché aveva i pedali invertiti. Aveva anche una bellissima sorella, ma non ci stava.
Quando vinceva bene ci compravamo le cartine per fare le sigarette con le cicche raccolte sotto i portici ed andavamo nelle osterie lungo il fiume.
Una volta portammo compensati e cartoni, pittura e la felicità più assoluta: pane, salame, vino e Arte.
Fu la prima volta che dipinsi un quadretto, però non passai l’esame.
Era nel 1957
Dopo l’esame di maturità andai a studiare architettura all’istituto Politecnico di Milano, ma non resistetti a lungo: veramente troppa matematica e geometria; mi trasferii a Parigi all’Istituto di Psicologia dove studiai con interesse per diversi anni, ma mi presentai a discutere la tesi di psicologia sociale con un giorno di ritardo!
Dopo mille scuse e peripezie burocratiche mi fu concesso di discuterla l’anno seguente sicché mi trovai a dover discutere due tesi (psicologia sociale e psicologia sperimentale) a brevissima distanza di tempo.
In quel periodo un’amica mi invitò gentilmente a passare i fine settimana in una pessima imitazione di un falso castello medioeval-settecentesco su di una bellissima isoletta della Senna: l’Isle Adam.
Era attorniato (il castello) da un parco e dal fiume, ben inteso, e in più si trovava a due passi da Pontoise, famoso paese, dedito all’impressionismo. Colpito anch’io da raptus impressionista, ogni tanto, per rilassarmi, dipingevo quadretti sul fiume.
Quella fu la prima volta che buttai via i pennelli, i colori e i quadretti e ne sono ancora contento oggi.
Quando ci furono i campionati mondiali di vela ad Alassio, mio fratello, allora pittore, fu invitato a fare una mostra al Circolo Nautico Al Mare. Insistette perché vi partecipassi anch’io: presentai dei disegni a pastello di cera. Non vendetti nulla ma riuscii a regalarne uno.
Era nel 1964.
Così cominciai a dipingere, come autodidatta.
Feci la prima mostra nel 1968.
Che cosa è per te un ritratto?
Un bel quadro.
Un bel quadro in cui il personaggio o almeno uno dei personaggi, se sono più d’uno, assomigli a colui che l’ha fatto eseguire o a qualcuno scelto da questi.
Ma la somiglianza è un fattore esteriore e superficiale che i ritrattisti da strada, abilissimi,
raggiungono in pochi minuti: ben poco! se si pensa che Cézanne impiegò 18 mesi per fare
il ritratto della monaca conversa oggi chiamato: vecchia col rosario.
Qual è la differenza? Nel primo caso l’artista descrive quel viso, in quell’ istante, con quella
pettinatura, con quegli orecchini, e con quella espressione (nei migliori casi).
Nel caso di Cézanne, l’opera coagula una vita intera, le sofferenze, le gioie, le emozioni,
le fatiche e i pensieri in una immagine fuori dal tempo, eterna e forse universale.
Solo dopo un lungo lavorio ecco giungere il miracolo della somiglianza:
una somiglianza che non corrisponde a nessun aspetto, eppure è innegabile, profonda,
duratura.
La tecnologia attuale, tramite la fotografia e il PC ci permette di avere in studio immagini del modello a volontà: in piedi, seduti, all’ombra, nella luce, di fronte, di profilo,a mezzo busto ecc ma tutte queste immagini non fanno una persona viva che muove, chiacchiera, sorride e gesticola.
Il pittore, per poter esprimersi, ha bisogno di un rapporto personale con il modello (non fosse altro che per il tempo di scattare foto) anche perché in ognuno di noi ci sono tante persone da ritrarre:
ciò che crediamo di essere, ciò che vorremmo essere, ciò che siamo e ciò che vorremmo apparire.
La miglior copia di un ritratto resta sempre molto lontana dall’originale appunto perché manca questo coinvolgimento dell’artista che lo spinge a penetrare lo spirito del soggetto depurando l’immagine da tutto ciò che è contingente.
.Dal punto di vista formale le mie ricerche riguardo ai ritratti multipli, e ai ritratti scorniciati corrispondono a tentativi di trovare la buona forma per realizzare ritratti che non siano resi ridicoli da sorrisi, gesticolazioni ecc. come capita di solito.
Ci sarebbe molto da dire su ciò ma…. Prima bisogna che io lo pensi
Come cambiano le tue donne rappresentate nel tempo?
Ridono, piangono, pensano, aspettano, si spogliano, si vestono, si moltiplicano, si semplificano, si lavano, amoreggiano, spettegolano, invidiano, ammaliano, soffrono, minacciano, ingrassano o dimagriscono
secondo le mie ricerche.
Ci spieghi il passaggio dalla pop art alla figurazione poetica?
“ Tredici anni sono necessari per imparare studiando con un maestro…
Ce ne sono molti che dicono che senza essere stati con i maestri hanno imparato l’arte. Non crederli…”
Cennino Cennini - Trattato della pittura (1437)
Benché qualche amico mi abbia guidato con pazienza, non ho avuto maestri:
i maestri sono così rari !
Il mio apprendistato è stato più lungo, naturalmente, tanto lungo che non è ancora finito e ciò mi piace perché ogni progetto continua ad essere una sfida, ogni realizzazione una lotta, ogni opera una conquista.
Il sentiero tortuoso che porta dai volti pop-art allo pseudo realismo di “Spiaggia” rappresenta essenzialmente il faticoso percorso dei miei progressi.
All’inizio nei grandi volti non sapevo proprio rendere il volume in modo pittorico, per cui preferii servirmi di volumi reali sfruttati in maniera grafica, con l’intento di esprimere una sensualità provocatoria ( una specie di siliconatura ante litteram ) ispirandomi alle immagini pubblicitarie delle riviste femminili. Realizzai nello stesso periodo anche nudi e paesaggi sempre tendendo alla fusione tra pittura e scultura .
Nel 1967 fondai con A. Marcos e diversi altri pittori “Automat” gruppo di ricerca sulla figurazione cinetica le cui opere comportavano anche motori, luci e suoni e che mi valse l’invito alla biennale di Parigi del 67 e del 69 e la realizzazione di un’opera di m3 x m12 x m3 per il padiglione francese nell’ Esposizione Universale di Osaka (Giappone) nel 70: Neve e Mare.
Il contatto diretto con l’arte e la cultura Giapponese ed asiatica mi sconvolsero .
Scoprii la curiosità: guardare con occhi vergini, quella cosa meravigliosamente disinteressata che degna soffermarsi sulla foglia, sulla farfalla, sull’insetto, su tutto per cercare di capire.
Quella meravigliosa curiosità che riempie il mondo di miracoli.
Ha mai visto i 365 cani di Hokusai?
Un disegno al giorno dello stesso cagnolino: fradicio sotto la pioggia, addormentato, feroce, che corre, seduto, innamorato, ringhioso, supplichevole, impaurito… Un disegno al giorno per un anno: una vita in trecentosessantacinque disegni.
Che curiosità, che maestria, e.. che rigore.
Provi a scrivere un pensierino al giorno per un anno!
Tornai convinto di dover imparare a vedere la vita ma anche a fare: se per parlare devi cercare la parola giusta , come puoi far poesia?
Cominciai il paziente apprendistato dell’artigiano; è il tempo lento della mano che permette alla fantasia di fecondare l’immaginazione.
Lo feci per passione ma anche perché non so esprimermi industrialmente come certi “grandi” artisti della mia epoca.
Disegnai soprattutto.
Dai Notturni d‘estate, visioni notturne da week-end, derivò la copertina dei dischi Lemmings e Stalingrad dei Bachdenkel che a sua volta diede il via ad una serie di pitture, sempre ad acqua, sul tema dell’inquinamento:
“Homo Polluens” .
Solo in quel momento cominciai a sentire il bisogno di imparare la pittura ad olio .
Cominciai a pasticciare ad olio sulle Tre Grazie dell’Homo Polluens, che diventò un altro quadro, tutto diverso, e scoprii la facilità dell’esecuzione e l’incanto del colore.
Il tema dei quadri successivi riguardava sempre l’uomo che gira le spalle alla natura rappresentata da un telone dipinto, ma era solo un pretesto per imparar paesaggi, come erano un pretesto i quadri di Leda per imparar tessuti e quelli degli Antenati per imparar ritratti.
Comunque erano passati i tredici anni e forse anche di più quindi dovevo essere diventato un pittore
E per dimostrarmelo provai a fare la cosa più difficile che ci sia dopo i fiori: un ritratto!
Ne feci qualcuno sebbene non sia mai riuscito a fare le persone giovani e belle come sono.
Verso questo periodo Francois Cheng mi disse, tramite il suo libro: Vide et plein:
Laddove si concentra lo sguardo dello spirito, non è affatto necessaria un’intera immagine.
E allora perché fare tutto?
Da questa affermazione, davvero interessante, nacquero i decoupages (ritagli) quadretti di studio in vista della realizzazione di antichi progetti come “le vie del sabato sera”, i ritratti ritagliati e quindi la necessità di cornici “ad hoc” ed in seguito le Salles d’O e Le mogli di Landru .
Questo è il mio percorso: nell’immenso oceano vuoto di ciò che avrei saputo fare, di ciò che avrei potuto fare e di ciò che avrei voluto fare, ogni tanto apparve una scintilla che mi guidò, anche se non so dove .
Forse oltre l’orizzonte.
Quali sono gli elementi innovativi della tua opera?
Non posso dirlo:
come qualcuno che nasce sul mare non potrà mai vedere il mare “per la prima volta”, così l’artista non può “vedere” la sua opera come spettatore.
Ma posso accennare a ciò che pur essendo importante per giungere al risultato finale non è visibile allo spettatore, infatti lo spettatore vede l’opera compiuta, ma non le tappe successive che conducono a quel risultato tanto più che la buona forma non si fa vedere, fa vedere il contenuto!
Quando l’evoluzione artistica finisce in un vicolo cieco, come mi pare che accada oggi, è meglio tornare indietro, a forme più primitive per cercare altre vie, come fa il montanaro che, accortosi che il sentiero non conduce da nessuna parte, torna indietro almeno fino all’ultimo bivio.
Per ciò utilizzo procedimenti antichi alla luce di conoscenze moderne colte nelle opere di quelli che considero i miei maestri.
Forse, se c’è qualcosa d’innovativo, è il mio modo di sintetizzare e coordinare queste conoscenze in funzione dell’esecuzione:
La composizione:
Quando ho stabilito approssimativamente come eseguire l’opera comincio ad elaborare la composizione: e cioè quell’ insieme di linee insite nel perimetro che racchiude la pittura (oggi, in generale, un rettangolo , un quadrato, più raramente un ovale ; anticamente forme molto più complesse come quelle utilizzate dai primitivi fiamminghi nei retabli o nei polittici) .
Scelto il contorno ne deduco un reticolo, sulla superficie da dipingere, che già deve esprimere calma o dinamismo , stasi o movimento ed i cui nodi indicano punti cruciali. Lo faccio con vari metodi (come insegna C.Bouleau) secondo le necessità: il ribaltamento dei lati minori ,la sezione aurea , le consonanze musicali Albertiane , le composizioni futuriste o con metodi personali .
La prospettiva:
La composizione struttura lo spazio in superficie, ma non lo spazio in profondità per il quale utilizzo necessariamente una prospettiva.
Personalmente utilizzo le prospettive in modo molto libero e matematicamente scorretto, talvolta anche mescolandole in funzione dell’insieme poiché anche la prospettiva possiede una sua espressività come ci fa notare E. Panofsky: basta vedere le prospettive poetiche di Escher. Su tele grandi mi piace utilizzare la prospettiva soggettiva (sferica) di Hauch per eliminare le deformazioni da trompe l’oeil.
Il disegno:
Chiedo alla bambina: che fai ? - Disegno - e come fai? - penso una cosa e ci faccio una riga intorno: splendida definizione! Anche se non è così semplice poiché, in generale, il disegno è la fase più importante, più intellettuale e la più complessa poiché deve tener conto delle precedenti ma è anche la più densa di trabocchetti come leziosità e stereotipi che possono nuocere all’espressione: disegno lentamente a molte riprese
Il colore:
Mentre nel disegno è la mente che va verso l’oggetto per percepire la forma per quanto riguarda il colore la visione parte dall’oggetto e si esplica sulla persona, determinando un’esperienza di tipo emotivo. Esso è un fattore essenziale per creare lo spazio in profondità e tutte le teorie del colore che considerano i colori su di una superficie saranno sempre insufficienti, poiché un colore è armonioso quando si trova al posto giusto in profondità.
Comunque il mio pensiero, ridotto all’osso, può essere sintetizzato in questo schema che mi stimola nella ricerca “per vedere cosa succede” quando metto taluna o tutte queste diverse fasi talvolta in contrasto, talvolta in armonia.
E’ un lungo cammino poiché dipingo in piedi mettendo il quadro da un lato della stanza ed il tavolo-cavalletto dall’altro lato in modo da potermi muovere e intervenire in tutti i sensi rispetto al quadro.
Lo faccio perché credo che il movimento nasca nell’immagine grazie allo spostamento dello spettatore davanti ad essa
Cosa c’è nel futuro dei tuoi quadri?
C’è il passato!
Una testimonianza quanto mai soggettiva del passato, osservato da un pittore con intento perlopiù ironico, qualche volta critico, di tanto in tanto anche premonitore.
Nel futuro della mia pittura ci sono invece troppi progetti; ma quando si semina è sciocco risparmiare i semi.
Comunque, innanzi tutto, dovrei ripulire certi quadri un po’ stanchi dei loro viaggi.
Non sarà un lavoro troppo lungo, conosco bene tecnica, materiali e quadri…
come se li avessi fatti io.
I quattro quadri di Leda devono essere montati in polittico a scomparsa: chiuso presenta la danza di corteggiamento di due Aironi, aperto quattro momenti di Leda ed il cigno.
Dovrei tradurre in pittura i disegni preliminari di Vernissages; e dai quadretti esplorativi di Decoupages far sorgere finalmente “le strade del sabato sera” opera richiestami da una responsabile del Louvre dopo la mostra “Homo Polluens” nel 78… ma allora non avrei saputo farla.
Credo anche di aver trovato un modo per
realizzare quella quindicina di grandi quadri
di folla: “Fanatic” del '79
su composizioni di tipo dinamico…
bisogna che provi!
1979 matite su carta cm 250 x 158
1979 matite su carta cm 250 x 158
Anche dei sette polittici del Progresso ne ho realizzati solo tre, il quarto, sulla musica, devo farlo per forza: tutti i disegni sono già pronti.
Questo è il minimo che possa fare per recuperare un poco del lavoro in ritardo.
Per quanto riguarda il lavoro attuale…..
Sto preparando o finendo le “7 mogli di Landru” : nudi ritagliati con effetto di trompe l’oeil.
(Rispondendo alle sue domande, mi rendo conto che impiego quasi sempre lo stesso procedimento
E cioè, quando desidero fare un quadro nuovo, comincio per fare qualche schizzo, come tutti, per ricordarmi, poi faccio una serie di quadri per impadronirmi della nuova forma e solo in seguito m’impegno alla realizzazione dell’opera. In questo caso il quadro rappresenterà una spiaggia estiva affollata e si chiamerà forse : l’abbronzatura.)
Su di un soggetto molto più grave, ma che mi sta a cuore, ho cominciato a studiare una ” Pietà Cuddalore” dove vorrei mettere in una relazione di accordo-opposizione la Pietà di Michelangelo con un padre scampato allo tsunami che porta la figlia morta in braccio: sarà una cosa lunga.
E forse non ci riuscirò
Un altro progetto importante, già disegnato a diverse riprese, é la porta dell’inferno o del paradiso? Forse semplicemente la porta.
Infine è assolutamente necessario che realizzi un progetto di figurazione cinetica del 1968.
Si tratta di un’opera che cambia nel tempo; vorrei eseguirla almeno in un esemplare.
Per ora è tutto.
A questo proposito mi viene in mente che, quando, dopo le lauree, mi presentai all’Ecole des Hautes Etudes per fare una ricerca sull’evoluzione semantica della parola “amore, in Europa, tra quattrocento e ottocento, il mio direttore di ricerca mi ascoltò pazientemente e poi mi chiese:
quanto tempo pensa di vivere?
Quali sono i materiali usati nei tuoi ultimi studi?
Sono: legno, tela, pittura ed in minor misura bronzo ed acciaio inossidabile.
Una volta si distingueva tra materiali nobili: oro, argento, platino, pietre dure e semidure, marmi, legni rari ecc : “roba da faraoni” e materiali andanti (per gli altri).
Nell’ elaborazione del prodotto artistico (come si dice oggi) questa distinzione non esiste.
Esiste solo una distinzione di prezzo come provano certi orribili aggeggi d’oro e il fatto che il cemento: l’orribile materiale della depravata cementificazione può diventare in mano a Gaudì, a Nervi o a Piano opera d’arte.
Amo tutti i materiali: mi piace il ferro ben arrugginito, ma non sono mai riuscito a fissarne la ruggine senza ucciderla: è delicata come le ali della farfalla. Mi piace il vetro,ma non so lavorarlo,
mi piace l’acqua ma non la domino ancora e forse mai, mi piace la ceramica ma se ne è impadronita mia moglie scultrice e ceramista.
Insomma mi accontento di ciò che è a portata dei più sicché per fare i rilievi di tela dei primi quadri
utilizzavo cotone da t-shirt venduto al metro sotto forma di tubo di varie dimensioni su gomma piuma e per le ciglia rhodoid,
Ho utilizzato ogni specie di materiali: plexiglas, mylar, plastiche varie, rame, acciaio, legni di tutti i tipi: vecchi bancali, fondi di armadio, vecchie finestre, mogano, noce, pino, abete, tiglio nonché colla da moquette e poi motori, lampade e micro-switch, lastre di bachelite ramata per circuiti stampati elettronici, prese per far lampeggiare ghirlande di natale.
Per quanto riguarda le tele ho sempre preferito quelle di puro lino, ma ho usato anche metis (misto lino) e cotone, soprattutto per intelare tavole di legno.
Nella preparazione delle tele o del legno ho sempre utilizzato colla vinilica ed acqua distillata.
Per dipingere ad acqua pittura vinilica (sopratutto Flash) e per dipingere ad olio un medium fabbricato da me stesso composto da olio nero (olio di noce extra vergine cotto alla litargia d’oro) mastice di Chio, balsamo di Venezia ed essenza d’aspice e, per diluire, essenza di sasso (petrolio)
Comunque tengo a precisare che l’utilizzazione di materiali diversi non corrisponde a un capriccio bensì da una necessità perlopiù tecnico-estetica, sovente anche finanziaria, che nasce dal bisogno di risolvere un problema al momento dell’esecuzione.
Cosa ami del tuo lavoro e quanto ti costa?
E’ un lavoro molto vario in cui si combinano sogno, fai da te, scultura e pittura (talvolta scrittura). Mi piace e mi avvince per cui lavoro praticamente tutti i giorni in media per sette/ otto ore al giorno nell’inutile tentativo di rubare tempo al tempo.
La mia passione per la sperimentazione mi spinge ad esplorare sempre nuove soluzioni.
Il mercato attuale esige riconoscibilità a prima vista e ripetizione senza sorprese: la rinuncia ad un facile successo è il prezzo che pago per avere il diritto di sbagliare, ma forse anche di trovare.